Economia

Greenitaly. Il Rapporto 2014 sull’Italia sostenibile

Il Rapporto di Fondazione Symbola testimonia la sempre maggiore sensibilità dei consumatori verso il tema ambientale, racconta “il cuore pulsante del made in Italy” che coniuga sviluppo e sostenibilità.

Sul Rapporto GreenItaly 2014 vedi anche la news

Dal Rapporto GreenItaly 2014 presentiamo qui di seguito l’introduzione a cura di Ferruccio Dardanello e Ermete Realacci

In allegato il Rapporto completo


A Parigi, per la XXI Conferenza Onu delle Parti sul Clima che si terrà nel dicembre 2015, l’Europa è chiamata a dimostrare di essere non l’arcigna guardiana di rigide regole di austerità, ma lo “spazio privilegiato della speranza umana”. Quella francese sarà una tappa fondamentale nei negoziati verso il nuovo accordo globale sul clima per il dopo 2020 e i mesi che ci accompagneranno a questo appuntamento saranno decisivi.

Conosciamo e sono ormai sotto gli occhi di tutti i rischi collegati ai mutamenti climatici, rischi che possono interessare l’Italia più di altri Paesi. La Penisola, infatti, sta già pagando sulla propria pelle – sia in termini di vittime che di costi – i danni causati dal dissesto idrogeologico. Fenomeno al quale il nostro fragile territorio è naturalmente esposto, ma che i mutamenti in atto hanno ulteriormente aggravato. Basti pensare, come ci dicono i climatologi, che i fenomeni meteorologici estremi sono aumentati del 900% rispetto a venti anni fa. Se vogliamo dare al nostro Paese un futuro all’altezza delle sue potenzialità, lasciarci alle spalle i nostri mali antichi – non solo il debito pubblico, ma anche le diseguaglianze sociali, l’economia in nero, quella criminale, il ritardo del Sud, una burocrazia inefficace e non di rado persecutoria – occorre partire da un’Italia che c’è e che funziona, valorizzando le sue energie migliori e individuando nelle caratteristiche stesse del nostro sistema produttivo le radici di una nuova scommessa. E dobbiamo rispondere alle sfide di un mondo che cambia.

Sicuramente è necessario porre in atto politiche di contrasto, mitigazione e adattamento al global warming. Ma la sfida del clima è anche una straordinaria occasione per ripensare la società e l’economia in chiave green, per spingere sul terreno avanzato dell’innovazione e della sostenibilità le nostre imprese, per renderle più competitive e resilienti. Chi vede nel taglio delle emissioni e nel miglioramento dell’efficienza un freno alla nostra economia e alle nostre imprese, senza vedere le opportunità che ci offre la necessità di fronteggiare la crisi climatica, è su una falsa strada.

Di fronte a questa scommessa sul futuro non bisogna avere l’atteggiamento della moglie del principe di Salina nel Gattopardo: come nella vita, quella metafora non vale neanche nell’economia. In uno dei dialoghi più celebri del libro, infatti, il principe di Salina racconta “Sette figli ho avuto da lei, sette, e sapete che vi dico, padre? Non ho mai visto il suo ombelico” e prosegue spiegando che sulla impenetrabile camicia da notte della moglie campeggiava il motto «Non lo fo per piacer mio, ma per dare un figlio a Dio». Ecco, sarebbe sbagliato affrontare questa sfida come un dover essere, come l’adempimento tecnocratico e astratto di trattati e obblighi internazionali. Anziché avere un atteggiamento difensivo dobbiamo saper vedere la straordinaria occasione che ci pongono le sfide che abbiamo di fronte. E capire che il modo più intelligente di affrontare i problemi ambientali ed economici che abbiamo di fronte è puntare su innovazione, conoscenza, qualità, bellezza e green economy.

Nel nostro Paese – come racconta da cinque anni Greenitaly – la green economy è già in movimento: sta contribuendo a rilanciare la competitività del Made in Italy e, più in generale, a promuovere un nuovo modello imprenditoriale, fondato sui valori della qualità, dell’innovazione, dell’eco-efficienza e dell’ambiente. E questa è la direzione che ci indica anche la sempre maggiore sensibilità dei consumatori verso il tema ambientale, come testimonia il sondaggio condotto da SWG per questo rapporto, secondo cui il 78% di cittadini italiani è disposto, nonostante la crisi dei consumi, a spendere di più per prodotti e servizi eco-sostenibili. Già oggi in Italia l’economia verde abbraccia diversi settori dell’economia nazionale – da quelli più tradizionali a quelli high tech, dall’agroalimentare all’edilizia, dalla manifattura alla chimica, dall’energia ai rifiuti -e coinvolge migliaia di piccole e medie imprese che hanno colto l’opportunità offerta da questa nuova prospettiva di sviluppo.

Ne sono una dimostrazione le circa 341.500 aziende dell’industria e dei servizi, con almeno un dipendente, che hanno investito negli ultimi sei anni o investiranno quest’anno in prodotti e tecnologie green. In pratica, dall’inizio della crisi, nonostante le difficoltà, più di un’azienda su cinque ha scommesso sulla green economy. Una propensione che sale nettamente nel manifatturiero, esposto più di altri alle insidie della difficile congiuntura economica: qui quasi un’impresa su tre punta sul green, non solo per ridurre l’impatto ambientale e risparmiare energia, ma per riqualificare le proprie produzioni ed essere più competitiva. Una quota in aumento rispetto alla precedente rilevazione, a dimostrazione di come la sostenibilità sia un asset centrale per affrontare con successo la forte competizione sui mercati globali, una necessità per tenere il passo col mondo che cambia. Non a caso, le imprese che fanno eco-investimenti sono più forti all’estero: il 19,6% esporta stabilmente (quasi 67.000 in termini assoluti), contro il 9,4% di quelle che non investono. Una percentuale che raddoppia nel comparto della manifattura, dove, tra le imprese che investono green, quelle esportatrici arrivano a superare il 40%, mentre nel caso delle imprese che non investono, la quota si ferma al 24%.

Il profilo delle aziende che puntano sul green è fatto anche di altri importanti tasselli, come l’orientamento continuo all’innovazione. Il 20,6% delle aziende che realizzano eco investimenti ha sviluppato nuovi prodotti o nuovi servizi nel corso del 2013, contro l’8,7% di quelle che non investono. Anche in questo caso, le imprese manifatturiere primeggiano: qui, fra le aziende che fanno investimenti green, la quota delle innovatrici è quasi del 30%, mentre nel caso di quelle non investitrici la percentuale si dimezza (15%). Un impegno, questo, che sembra ripagare anche sul fronte dei risultati economici: il 18,8% delle imprese ecoinvestitrici ha visto crescere il proprio fatturato nel 2013, mentre tra le non investitrici ciò è successo solo nel 12,6% dei casi. Questa rivoluzione verde ha ricadute positive anche sul fronte dell’occupazione.

Oggi, nell’intera economia italiana, sono presenti quasi 3 milioni di green jobs, che corrispondono al 13,3% dell’occupazione complessiva nazionale. Inoltre, nel 2014, le aziende italiane dell’industria e dei servizi hanno programmato di assumere circa 50.700 figure professionali “verdi” e altre 183.300 figure per le quali sono reputate indispensabili com7petenze green. Nell’insieme, si tratta di 234 mila assunzioni, ossia ben il 61% della domanda di lavoro.

Una prospettiva, quella dei green jobs, che anche in Europa offre prospettive decisamente promettenti: basti pensare che di qui al 2020 si possono creare in Europa, come indicato dalla stessa Commissione, altri 20 milioni di posti di lavoro verdi. Il modello economico green premia chi investe in conoscenza, nuove tecnologie e capitale umano: il 70% di tutte le assunzioni previste dalle aziende nel 2014 e destinate ad attività di ricerca e sviluppo sarà coperto da green Jobs; lo scorso anno la percentuale era del 61,2%. La green economy appare inoltre una scommessa ragionevole anche per le nuove imprese. Nel primo semestre del 2014 si contano quasi 33.500 start-up green che hanno investito in prodotti e tecnologie verdi già nei primi mesi di vita o prevedono di farlo nei prossimi 12 mesi: ben il 37,1% del totale di tutte le aziende nate nei primi sei mesi di quest’anno.

Nello sviluppo di comportamenti virtuosi in campo green, una leva che sempre più di frequente viene attivata dalle imprese è quella dell’aggregazione. Lo dimostra il diffuso utilizzo dello strumento del Contratto di rete, che permette di superare i possibili ostacoli dettati dalla dimensione aziendale e di trovare nuovi spazi di integrazione di filiera, sul versante dell’innovazione come della ricerca di nuovi mercati. Al 1 ottobre di quest’anno, si contano 258 reti green che rappresentano il 15% di quelle totali. Numeri, questi, che smentiscono la retorica del declino ineluttabile e della caduta di competitività dell’Italia – rilanciata di recente da una copertina dell’Economist che ci annovera fra le economie “che affondano” – e che dimostrano come un nuovo modello di sviluppo sia prendendo forma: più sapere e innovazione, anche in settori tradizionali, meno risorse consumate e meno inquinamento. Un intreccio che è difficile da leggere solo con le lenti delle agenzie di rating.

L’Italia è uno dei cinque Paesi al mondo – assieme a Cina, Germania, Corea del Sud e Giappone – che vanta un surplus commerciale di prodotti manifatturieri superiori ai cento miliardi di dollari. Dall’inizio della crisi il fatturato estero della nostra manifattura è cresciuto percentualmente più di quello tedesco: +16,5% contro +11,6% (mentre, per converso, quello interno ha subito un crollo drammatico, legato anche a miopi politiche di austerità). L’Italia è tra i Paesi avanzati che, nella globalizzazione, ha conservato maggiori quote di mercato mondiale: dopo l’irruzione della Cina e degli altri Brics, ha mantenuto il 71% delle quote di export rispetto al 1999. Un livello pari a quello degli Usa e superiore a quello di Giappone, Francia e Regno Unito.

Nessun Paese al mondo, oltre al nostro, può vantare ben 935 differenti prodotti (su circa cinquemila complessivi) in cui il surplus commerciale è tra i primi tre al mondo. Che tradotto diversamente, vuol dire essere l’eccellenza assoluta in poco meno del 20% tra tutti i settori economici presenti nell’economia globale. Merito, questo, della nostra capacità antica di intercettare una domanda di qualità che emerge in tante aree del mondo. Lungi dal soccombere alla globalizzazione, il nostro Paese ha quindi reagito conquistando nuovi mercati e diversificando la propria specializzazione per intercettare nuove richieste di mercato. La green economy è stato uno dei driver di questa evoluzione, permettendo a molte imprese del nostro made in Italy di riposizionarsi su nicchie ad alto valore aggiunto e di competere efficacemente con i paesi emergenti. Una dinamica, questa, trasversale ai diversi settori del manifatturiero.

Nel comparto meccano-tessile, le aziende italiane primeggiano grazie a macchinari tailor-made in grado di garantire un notevole risparmio energetico, caratteristica particolarmente apprezzata dagli imprenditori cinesi, tanto che il gigante asiatico – invece di fagocitarci – è diventato il principale mercato di riferimento del comparto. In un’altra filiera storica dell’industria italiana – quella cartaria – si diffonde l’upcycling, ovvero la pratica di trasformare i rifiuti in carte di pregio, un prodotto ecosostenibile di alta gamma che incontra il favore di una clientela internazionale sempre più sofisticata. E ancora: le aziende del distretto della sedia, davanti alla sfida globale, hanno capito che la qualità dei prodotti va garantita anche attraverso la certificazione ambientale delle materie prime, elemento distintivo soprattutto nei mercati europei o nord-americani. Per questo si sono messe in rete e hanno dato vita alle prime filiere italiane certificate FSC e PEFC a livello distrettuale – tra le poche anche in ambito europeo.

In Italia, inoltre, per ogni milione di euro prodotto dalla nostra economia emettiamo in atmosfera 104 tonnellate di CO2, contro i 110 di Spagna, i 130 del Regno Unito e i 143 della Germania. Non solo, siamo campioni europei nell’industria del riciclo: a fronte di un avvio a recupero industriale di 163 milioni di tonnellate di rifiuti su scala europea, nel nostro Paese ne sono state recuperate 24,1 milioni di tonnellate, il valore assoluto più elevato tra tutti i paesi europei (in Germania ne sono state recuperate 22,4 milioni di tonnellate). Chi pensa di uscire dalla crisi semplicemente con un ritorno al passato si sbaglia. Il senso del limite, anche ambientale, entra nel sistema produttivo e nelle abitudini delle persone, e si sposa a una spinta nuova verso la qualità dei prodotti e delle relazioni. Secondo alcuni dati presentati in questo rapporto, gli italiani, alla domanda su chi sia l’attore che ha la maggiore responsabilità rispetto alla tutela dell’ambiente, non pongono al primo posto le istituzioni – ed è una novità notevole – ma i cittadini stessi.

Cambiano così gli stili di vita e di consumo: complice la crisi che costringe a cambiare abitudini, una nuova frugalità conquista fasce crescenti della popolazione. I comportamenti di acquisto diventano più responsabili e, grazie al web, più condivisi. Non è un caso che la spesa di prodotti biologici e a chilometro zero raggiungerà, per la prima volta, i 20 miliardi di fatturato nel 2014, in netta controtendenza al calo generale dei consumi alimentari. A fare un vero balzo in avanti è il canale di vendita diretta, che ha raggiunto il fatturato record di 3 miliardi di euro, grazie soprattutto ai mercati degli agricoltori, dove fanno regolarmente la spesa 7 milioni di italiani. Anche il mercato italiano del bio continua a crescere: nei primi cinque mesi del 2014, gli acquisti domestici di biologico confezionato hanno fatto registrare un incremento record del 17,3% rispetto ai primi cinque mesi del 2013, con un fatturato stimato pari a 3,5 miliardi.

Si calcola che il 45% degli italiani metta cibi biologici nel carrello regolarmente o almeno qualche volta. Sul lato della produzione, l’Italia è secondo paese nell’UE per superficie agricola investita a biologico, pari a 1.317.177 ettari, e detiene anche il primato europeo per numero di agricoltori che si dedicano alla produzione di alimenti bio: a fine 2013, erano 52.383. La mobilità diventa più sostenibile e condivisa. Con 773 mila veicoli, il nostro Paese ha il parco circolante a metano più grande d’Europa e il maggior numero dei punti di rifornimento, mentre il car-sharing si diffonde e nelle principali città italiane, Milano in testa. A dimostrazione di una crescente attenzione verso la qualità di vita, soprattutto nelle aree metropolitane.
E qui entra in gioco il tema della riqualificazione urbana che passa necessariamente – visto l’allarme per il crescente consumo di suolo nel nostro Paese – dall’efficientamento energetico del patrimonio immobiliare esistente, un segmento che negli ultimi due anni è cresciuto del 20%. Nel 2013 sono stati spesi 116,8 miliardi di euro in manutenzione ordinaria e straordinaria, anche grazie all’ecobonus: ciò significa che il 66,9% dell’intero fatturato dell’edilizia è derivato dalla riqualificazione. Il settore del green building ha già creato in Italia 236 mila posti di lavoro e potrebbe arrivare, calcolando l’indotto, a 400 mila entro il 2017.

Puntare sulla riduzione dei consumi energetici, sulla sicurezza antisismica, sull’innovazione e sulla bellezza, senza consumare nuovo territorio è la strada del futuro. È del resto una via indicata dall’Europa che attiverà, nel Quadro comunitario di sostegno 2014-2020 in questo campo per il nostro Paese, circa 7 miliardi di euro. Le tante esperienze positive non devono farci perdere di vista i problemi annosi del Paese. Ma ci indicano la direzione in cui andare. Innanzitutto considerare l’equità una chiave per la ripresa del mercato interno. Quindi, se ci sono risorse effettivamente disponibili, concentrarle sulla riduzione del cuneo fiscale, privilegiare chi fa impresa rispetto alla rendita, non lasciare indietro nessuno. Confermare e rafforzare, anche grazie ad una nuova fiscalità ambientale, la naturale propensione dell’economia italiana a competere – non solo nell’export, -sulla qualità, sull’innovazione, sulla bellezza.

Serve infine puntare, per rilanciare l’economia interna, su settori ad alta intensità di lavoro, attivabili a breve e non delocalizzabili.
Quello che raccontiamo in questo rapporto, in definitiva, è il cuore pulsante del made in Italy che, come per il mitologico Anteo, il gigante imbattibile fin quando non perde contatto con la terra, dà nuova linfa alle antiche tradizioni produttive, al capitale umano e ai territori, coniugando bellezza, innovazione, efficienza e sostenibilità ambientale. Come dicono i nomi, i marchi, la qualità delle iniziative citate, si tratta di una rassegna – che non ha la pretesa di essere esaustiva – dei nostri campioni nazionali.

Sono imprese importanti, progetti pieni di futuro, in piena continuità con la tradizione del made in Italy. Che in piena crisi delineano un modello nuovo: un’economia più a misura d’uomo, in gradi di coniugare sviluppo e sostenibilità. Questo modello va promosso: non solo per interessi e orgoglio nazionale. Deve farlo Expo 2015 che, partendo dal tema del cibo – una delle nostre eccellenze nazionali, anche sotto il profilo della sicurezza e della sostenibilità ambientale – è un’occasione irripetibile per rilanciare il sistema Paese che nella green economy ha una delle sue punte più avanzate. Se si potesse insegnare la geografia al piccione viaggiatore – ha scritto Carl Gustav Carus – il suo volo incosciente, che va dritto alla meta, diventerebbe d’un tratto impossibile”.

Questa Italia innovativa, competitiva e sostenibile non ha bisogno di essere irreggimentata dentro rotte tracciate da altri. Non dobbiamo insegnare la geografia al piccione viaggiatore, dobbiamo assecondare il suo volo. Insomma, l’Italia deve fare l’Italia.

Ferruccio Dardanello, Presidente Unioncamere
Ermete Realacci, Presidente Fondazione Symbola